lunedì 14 luglio 2008

La lezione di "Cuore"


Repubblica — 12 luglio 2008 pagina 1

L' intervento severo e intelligente di Curzio Maltese (Repubblica di ieri) sul cortocircuito linguistico di piazza Navona (cortocircuito tra linguaggio della satira e linguaggio della politica) mi ha fatto tornare in mente l' esperienza felice e tormentata di Cuore, il giornale satirico che fondai e diressi nella prima metà dei Novanta. Senza la pretesa di impartire lezioni ad alcuno, credo possa essere utile farne cenno. In nuce, il panorama sociale e soprattutto politico preannunciava molto di quanto poi accadde. La sinistra dei partiti già deperiva e imboccava la sua interminabile e interminata mutazione, e si cominciava a parlare diffusamente della sua "crisi di rappresentanza". La satira in genere, e Cuore soprattutto, ottennero in breve un largo credito di pubblico. Che - specie con il senno di poi - voglio definire "successo", e non già "consenso", proprio perché di un giornale, e non di un movimento politico, stiamo parlando. Eppure anche allora, esattamente come oggi, ci trovammo a fare i conti con l' ambigua, seducente tentazione di sorvolare sugli ambiti, e caricarci in spalla, un po' per celia un po' per non morire, una fetta (indebita) di rappresentanza politica. Lo svuotamento della politica (già forte in quegli anni, fortissimo adesso) già apriva di suo ampi varchi: e dove si creano vuoti, si è indotti quasi "fisicamente" a occuparli. Il vuoto attrae e trascina. Del ruolo di supplenza della satira, in termini di opposizione "vera", di vivificante critica al potere e al way of life corrente, già si discuteva allora, con ovvio ma pericoloso compiacimento da parte di noi satirici. Per il resto, a ingigantire la tentazione, provvedeva quel gradevole e subdolo ingrediente che è l' applauso del pubblico. Alle feste estive di Cuore arrivavano da tutta Italia decine di migliaia di persone, soprattutto ragazzi. Il clima era febbrile, allegro, tipico delle comunità che si riconoscono e si galvanizzano. Vennero leader politici, intellettuali, artisti, preti, segretari di partito e capi di movimenti, venne quasi al completo il piccolo esercito della sinistra di lotta e di governo. Il piccolo giornale si ritrovò a essere il catalizzatore di parecchi dei più vivaci umori dell' epoca, e il suo direttore, poco più che trentenne, si ritrovò a essere un leader, tanto da meritare dal vecchio e combattivo dirigente comunista Maurizio Ferrara (papà di Giuliano) il titolo di "capo del partito trasversale delle teste di cazzo". Del quale mi fregio ancora oggi, nei momenti di incertezza, con qualche nostalgia. Fortunatamente, non ero abbastanza "testa di cazzo" da non farmi la sola domanda seria che dovevo farmi: va bene, sono un leader. Ma di che cosa? La domanda, fortunatamente, non me la posi in solitudine. La mia redazione, con il complemento formidabile di vecchi briganti della satira italiana, artisti a tutto tondo e non già militanti politici, superò ogni tentennamento tenendo conto di un semplice, inoppugnabile ostacolo: se volevamo difendere il nostro linguaggio, e continuare a parlarlo, dovevamo continuare a fare un giornale e solo quello. Ogni altro possibile sbocco, ogni cedimento alla raffica di sollecitazioni (ma perché non fate un partito? perché non vi presentate alle elezioni?) ci sembrò esiziale, per il ragionevole motivo che il linguaggio della politica era troppo differente, per fini e per mezzi, dal nostro. Non voglio dire migliore o peggiore: diverso, profondamente diverso. Tanto è vero che le pochissime mobilitazioni "politiche" di Cuore discendevano direttamente dalla loro matrice satirica. Fondammo le "Brigate Molli" e istituimmo la pratica dell' "aggiunta proletaria", parodia situazionista dell' esproprio proletario: i nostri lettori, a centinaia, restituivano negli scaffali dei supermercati le merci in eccesso, gli acquisti inutili e fotografavano l' azione. Altri adorabili pazzoidi organizzati andarono alle edicole delle loro città offrendosi come omaggio agli acquirenti di Cuore, paradossale gag sugli inserti speciali e sulla dittatura del marketing, l' inserto umano che cercava di convincere l' esilarato compratore a portarlo a casa insieme al settimanale~ Di più e di diverso, niente. Forse perché la nostra presunzione artistica generò, quasi senza volerlo, gli anticorpi dell' umiltà politica. Forse perché all' epoca eravamo ancora convinti, o speranzosi, o illusi, che la politica, oggetto infinitamente più grande di un giornale, potesse e soprattutto dovesse ripartire da sé sola, sbrogliarsela, senza bisogno di mosche cocchiere così orgogliosamente disorganiche, e per fortuna costrette all' autonomia dal loro stesso linguaggio "specializzato", così acuminato e insieme così delicato. Così importante e così marginale. Ora, e venendo all' oggi: né la logica né il diritto impediscono a un artista di darsi alla politica. Esattamente come un ingegnere, un idraulico, un operaio, un impiegato e perfino un onorevole, anche un comico o un satirico hanno il sacrosanto diritto, in quanto cittadini, di occuparsi della cosa pubblica: meritano soltanto il ringraziamento di chi non ha avuto altrettanto spirito di servizio, e gusto del rischio. Ma non possono farlo sperando di portarsi dietro l' armamentario acquisito fino a lì, in tutt' altro ambito. Non possono pretendere che la politica, che ha una sua grammatica e una sua sintassi, accetti una colonizzazione culturale così impetuosa e immediata, saltando tre o quattro passaggi logici in un battere di mani. Non possono confondere il loro successo (meritato) con il consenso politico, che è una stratificazione faticosa almeno quanto il successo artistico: ci sono leader politici, la dico come al bar, che si sono fatti un mazzo così per diventarlo. Piaccia o non piaccia, quella strada è lunga, piena di spine, di lusinghe e di tradimenti. Avessimo fatto "il partito di Cuore" ci saremmo meritati parecchi titoli di giornale e una cospicua manciata di voti: tal quale quella degli infiniti partitini succedutisi nell' infinito (e perdente) albo della sinistra italiana, che ha prodotto più partiti e movimenti che risultati plausibili. Si capisce che oggi la confusione degli ambiti, il cock-tail di competenze e perfino di identità, diciamo il precariato oppure diciamo la virtualità delle mansioni e delle funzioni (Carfagna ministro non è uno scandalo sessuale, è un obbrobrio politico), insomma la distruzione degli ambiti e dei loro linguaggi specifici, è uno degli ingredienti più vistosi, e più deteriori, della società dello spettacolo. Questo rende la tentazione della politica ancora più irresistibile, perché a differenza delle mele e delle pere che le nostre maestre elementari ci spiegavano di non poter sommare, gli applausi si sommano facilmente anche quando sono mele e pere. Voterei volentieri per Guzzanti e per Grillo, o per chiunque altro avesse il coraggio e la faccia di mettersi in palio con tanta energia, se solo avvertissi che gli ambiti non sono confusi (la confusione è il conformismo della nostra epoca), che il linguaggio è congruo, sta insieme, rende l' idea. Perché uno dei possibili antidoti al casino nel quale viviamo immersi è appunto questo: provare disperatamente a ristabilire ambiti e competenze. Chi è bravissimo nel suo rischia di diventare incongruo e dannoso quando pensa di inventarsi una specie di generalismo mediatico nel quale la battuta rimpiazza goffamente il progetto politico, e il progetto politico insegue affannosamente la battuta. La satira e la comicità sono cose troppo serie per dilapidarle in politica. -
MICHELE SERRA

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